Jurgen "Kop": storia di un amore sulle rive del Mersey
Dopo nove anni il tecnico tedesco lascerà il Liverpool: dalla prima partita a White Hart Lane ai trionfi nazionali e internazionali. Empatico come Shankly, lascia un segno indelebile
Mignolet, Clyne, Skrtel, Sakho, Moreno; Leiva, Emre Can, Milner, Lallana, Coutinho; Origi. E' il 17 ottobre del 2015 e il Liverpool si appresta a giocare a White Hart Lane (quello vecchio, non l'ultra moderno di oggi) in Premier League contro il Tottenham. Sulla panchina dei Reds, dopo l'esonero di Brendan Rodgers, c'è l'uomo in cui tutto Anfield (perché da quelle parti lo stadio serve per indicare un'intera tifoseria) ripone una valigia di speranze. E' Jurgen Klopp. Due titoli tedeschi e una Supercoppa di Germania, nonché una finale di Champions League persa contro i rivali di sempre, il Bayern Monaco. Questo il bilancio del tecnico tedesco con il Borussia Dortmund, che aveva preso in mano nel 2008.
"From doubters to believers"
A rileggere oggi quella formazione del Liverpool vengono più o meno i brividi: dopo l'ultimo ciclo vincente di Benitez, i Reds erano caduti in annate più o meno travagliate. In mezzo, un sogno lungo 24 anni, la riconquista del massimo campionato inglese. Il Liverpool del 2013-14 tocca il trofeo e poi se lo vede sfuggire a un passo dal traguardo: il Chelsea, Mourinho, la scivolata di Gerrard, sono storia nota.
Pareva che il Liverpool non potesse più rialzarsi da quella incredibile batosta, e invece con l'uomo di Stoccarda, calciatore non trascendentale che ha legato la sua carriera soprattutto al Magonza (se saltellate su Youtube c'è una rete fantastica segnata nel 1997-98 con quella maglia), tornerà finalmente a ruggire il Liverpool di un tempo.
Di quella formazione scesa in campo a White Hart Lane non resta più nessuno oggi, ovviamente: l'ultimo baluardo è stato Milner, che ha lasciato Anfield lo scorso anno. Viene più che altro da sorridere soprattutto per la qualità così così della difesa, eccetto forse Skrtel che comunque fu una presenza fondamentale nell'anno in cui il Liverpool andò vicino al titolo. Ma era innegabile che i Reds dovessero risorgere. “From doubters to believers”, fu lo slogan di Klopp: da insicuri, a gente che ci crede, in sostanza.
Al suo primo anno, peraltro non intero, va subito in finale di Europa League perdendo contro il Siviglia. Poi arriveranno la Champions League a Madrid, il Mondiale per club, le tre coppe inglesi del 2022, e soprattutto quell'agognata Premier League nel 2020, con l'unico rammarico di averla raggiunta in un Anfield deserto come tutti gli stadi principali d'Europa, fermati dal Covid-19.
Jurgen e Bill: empatia allo stato puro
Se chiedi a un tifoso del Liverpool chi è stato l'uomo per eccellenza che ne ha incarnato ogni valore, troverai una semplice risposta: Bill Shankly. Definirlo “allenatore” dei Reds dal 1959 al 1974, è riduttivo: Shankly era un padre per i giocatori, insegnava il comportamento ancor prima del gioco e rispondeva pure alla posta che arrivava a tonnellate nella sede del club. Fu lui, insieme ai suoi collaboratori, a rendere Melwood un posto ospitale e degno di un club che voleva diventare grande sul serio. Nessuno è mai entrato in empatia con il pubblico di Anfield come Shankly: scomparso nel 1981, a lui è dedicato un cancello di Anfield, lo Shankly Gate, e lo “Spirit of Shankly” è uno dei gruppi di tifosi del Liverpool più attivi non solo in senso sportivo ma anche culturale.
Nessuno, prima di Jurgen, appunto. Non Benitez, vincente ma ben poco empatico. Non Rodgers, che, seppur accompagnato da una buona dose di sfortuna, non poteva arrivare a quei livelli. Ma ho sempre ritenuto che Klopp sia stato per la prima volta colui che ha fatto rivivere lo “spirit of Shankly” sul prato verde di Anfield: il cordone ombelicale che lo ha legato al pubblico, con quei tre gesti di esultanza alla fine di ogni partita sotto la Kop, con quelle conferenze stampa così esuberanti e in cui più o meno sempre si è riservato un pensiero al pubblico, con quel suo modo di annullare la tanta, troppa distanza che oggi il calcio ha messo fra sé e il motore di questo sport, i tifosi.
Raccoglierne l'eredità non sarà semplice, non tanto a livello di successi quanto di feeling con l'ambiente, che a Liverpool è un must tanto quanto i risultati. Klopp poteva andarsene nel 2022, dopo la finale persa di Parigi, avendo anche spremuto a dovere un club che soprattutto dal 2017 al 2020 ha viaggiato a velocità altissime, regalando un calcio spumeggiante e travolgente alla sua gente e a coloro che amano il bel calcio. E invece è rimasto, per vincere ancora: quest'anno dunque, dopo la notizia del suo imminente addio, per il Liverpool sarà ancora più importante cercare di alzare un trofeo. Sarebbe il degno colpo di coda di un ciclo straordinario firmato da un uomo che ha sempre detto “io non amo il rock, preferisco l'heavy metal”. Come a dire, voglio costruire con squadre che non sono ancora al top, non voglio la pappa pronta. Il suo Borussia e il suo Liverpool hanno incarnato proprio questo concetto. E una volta chiusa la porta di Anfield, anche il suo cognome sarà cambiato per sempre: chiamatelo Jurgen “Kop”. Come il settore più universalmente famoso dello stadio, non più solo una gradinata, ma un luogo ormai entrato nella cultura di massa. Testimonianza di un legame indissolubile che resisterà alle pieghe del tempo e a strade che si dividono.