Molinari: "Il calcio a Smara fa sognare i bambini. Il settore giovanile del Progresso è un modello"
Le due facce del calcio: veicolo di evasione per i bambini del campo profughi di Smara, prigione di pretese in Italia. La testimonianza di Umberto MolinariUmberto Molinari, Direttore Generale dell’S.C.D. Progresso, società calcistica militante in Serie D nota per il settore giovanile di grande livello e di considerevole prospettiva, ha testimoniato ai nostri microfoni l’importanza dell’esperienza vissuta come docente in Africa e, precisamente, nel campo profughi di Smara - Sahara Occidentale - su iniziativa portata avanti dal CISP (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e dall’UE, in collaborazione con l’UISP (Unione Italiana Sport Per Tutti).
Il modo di pensare e praticare lo sport del calcio da parte dei bambini del popolo Sahrawi e la durissima quotidianità di una vita lontana anni luce da quella italiana hanno lasciato una traccia indelebile nel d.g. Molinari, capace, oggi, di dare al suo Progresso e all’intero movimento calcistico italiano, un contributo preziosissimo in quella che è la ricerca di un gioco che dovrebbe essere caratterizzato da valori di unità e uguaglianza, prima ancora che dall’agonismo e da aspettative e scopi economici di eccessive entità e rilevanza.
Di seguito, l’intervista a Umberto Molinari.
Direttore, ci spiega in cosa è consistita l’iniziativa che l’ha vista coinvolto in prima persona?
“Si tratta di un’iniziativa del CISP e della Comunità Europea in collaborazione con UISP. Fino a pochi mesi fa ero Responsabile del Calcio per UISP, adesso sono il Direttore Generale del Progresso Calcio, che da sempre ha un settore giovanile importante con persone competenti e capaci di esprimere valori. Gli stessi valori che poi si ritrovano in ragazzi che fanno parte della prima squadra. Sono andato in Africa come rappresentante del Progresso Calcio, che è stato invitato a partecipare a tale iniziativa. Nella fattispecie dei casi, il CISP e l’UE hanno voluto organizzare un viaggio in un campo profughi del popolo Sahrawi, attualmente confinato nel deserto. Ci sono cinque campi profughi, io sono andato nel campo di Smara, nel Sahara occidentale. Abbiamo tenuto un corso da allenatori grazie al quale abbiamo consegnato dei germi in modo tale da raccogliere i frutti nei bambini, facendoli divertire”.
Un impatto di certo fortissimo quello scaturito dall’approccio con la realtà del campo profughi di Smara…
“Al corso avevo 22 ragazzi, dai 20 ai 35 anni. L’impatto è stato forte perché ero sempre sotto scorta, ma non una scorta nel modo italiano di essere intesa. Ero scortato da persone che avevano il mitra a tracolla, quindi si tratta di una scorta militarizzata”.
In un’Italia, un’Europa, un mondo sempre più afflitto dalla piaga della disuguaglianza, i bambini sono i primi (e talvolta gli unici) ad insegnare il valore dell’uguaglianza, anche dinanzi a un pallone che rotola. Rispetto all’Italia, che rapporto hanno col calcio i bambini del campo profughi in cui lei è stato?
“I bambini sono bambini in tutto il mondo. Purtroppo, però, ci sono bambini nei campi profughi ed altri che hanno la fortuna di essere nati in Italia ad esempio. Quello che ho potuto notare è che i bambini del campo profughi hanno il piacere di giocare a calcio. Loro giocano sempre a calcio e vivono questo sport dalla mattina alla sera, un po’ come succedeva da noi fino a qualche tempo fa, quando le parrocchie, la strada, il cortile erano i nostri riferimenti. Non è un caso che il Progresso Calcio ha portato del materiale a Smara, come ad esempio le maglie da calcio, perché quei bambini non hanno nulla. Loro giocano quasi tutti scalzi, si divertono praticando un calcio primordiale, vivono il calcio come uno sfogo alla dura realtà e alle situazioni che vivono quotidianamente assieme alle proprie famiglie, confinate nel Sahara Occidentale”.
Quali saranno le difficoltà più grandi nel trasmettere ciò che ha visto in Africa al suo Progresso e alle famiglie dei vostri ragazzi?
“Al Progresso Calcio abbiamo l’obbligo di far divertire i bambini. La difficoltà, tornando oggi pomeriggio al campo, sarà quella di ‘comunicare’ con la famiglia, con i genitori che sono sempre presenti. Tu li vedi che sono lì ad aspettare i propri figli. In Italia, spesso le famiglie caricano un po’ troppo i propri bambini di tensione e aspettative. L’esperienza nel campo profughi mi è stata molto utile perché credo che al Progresso abbiamo intrapreso la direzione giusta, anche se a una determinata fascia di età si fa inevitabilmente una selezione. Tutto quello che noi facciamo lo facciamo col cuore, e l’attenzione primaria per il Progresso è il bambino. Noi dirigenti e gli allenatori abbiamo, insieme, l’obbligo di dare ai bambini tutto ciò che è necessario avere. Non parlo del materiale - perché quello c’è -, ma di tutto ciò che serve per trasmettere il valore, il piacere e il divertimento insiti nel calcio. Queste secondo me sono le prime nozioni che diamo ai nostri bambini. Sono gli allenatori e la società che devono dare un’impronta alla loro attività, tutti noi ci sforziamo per realizzare tutto questo”.
In Italia, il cellulare, la tv, il computer allontanano i bambini dalla voglia di giocare a calcio per puro divertimento. Cosa pensa a tal proposito?
“Tutto questo purtroppo è verissimo. E’ compito delle Istituzioni e delle Federazioni cambiare questa realtà. Le Federazioni a volte trascurano l’aspetto da lei evidenziato e non entrano nel merito di ciò che lei ha detto. E’ più semplice fare un calendario, è più semplice dare un patentino che affrontare i problemi più grandi”.
E’ difficile essere genitore, fare l’allenatore, come anche fare l’insegnante. A tal proposito, quale potrebbe essere la chiave per tornare alla genuinità persa nel rapporto tra il bambino e il calcio?
“Ha evidenziato bene il problema. Nel Progresso Calcio, stiamo cercando di dare una svolta al nostro settore giovanile. Tutti quanti hanno bisogno di potersi migliorare. Noi come dirigenti abbiamo il dovere di farlo, perché ai bambini va data tutta quell’educazione sportiva che a volte le famiglie, per vari motivi, non riescono a dare. Oggi le famiglie non sono più quelle di tempo fa, è cambiata la società, sono cambiate tante situazioni, però è nostro dovere mantenere i valori dello sport, salvaguardare e tutelare i nostri bambini. E’ questo un altro nostro obiettivo: la tutela dei bambini dalle troppe aspettative e dai miraggi che molto spesso vengono chiacchierati e trasferiti. Estendere il concetto di fare calcio del Progresso in tutto il Paese sarebbe bello e importante”.Tornando al campo profughi, lì il calcio non viene snaturato. E’ giusto affermare che a Smara, un tiro di collo destro o un colpo di testa sono schiaffi alle difficoltà riservate dalla vita?
“Esatto, è proprio così. Ha afferrato bene il concetto e l’essenza dello sport per quei bambini meno fortunati. Lì, i bambini giocano a calcio senza secondi fini. Non praticano questo sport perché hanno visto la partita in televisione, ma per divertimento. Il calcio è uno sfogo e nel contempo un momento di aggregazione tra i bambini di tutto il campo profughi”.
Guardando, invece, all’Italia, il cosiddetto ‘calcio di strada’, ormai caduto nel dimenticatoio, potrebbe richiamare in parte il concetto di calcio che hanno i bambini presenti in un qualsiasi campo profughi?
“Probabilmente sì. A tal proposito mi ha ricordato le modalità del calcio praticato nella realtà in cui sono stato. I bambini giocano senza arbitro, senza tattica, senza nessun fischietto, ma sa cosa c’è al loro posto?Una grande correttezza tra quei bimbi. Loro ad esempio non simulano mai, cosa che invece si ripete spesso qui da noi. Nel campo profughi quando la palla è fuori è fuori, quando è gol è gol, non ci sono contestazioni perché i bambini hanno intrinseche delle regole non scritte per la loro correttezza. Loro si distinguono per questo aspetto e le partite si caratterizzano per il grande impegno da parte di tutti. Giocano tutti. Insieme si divertono”.
A Smara il calcio rende i bambini tutti uguali dinanzi a una palla che ruota. Valorizzare l’aspetto umano, in Italia, può rappresentare il modo giusto per fortificare un valore oggi in via di estinzione?
“Sicuramente sì. Alcune cose tecniche sono diventate quasi degli alibi per fare del calcio un qualcosa di diverso dal gioco. Nelle partite che io vedevo a Smara, ad esempio, il bambino che aveva dieci anni e il ragazzino che ne aveva quindici potevano giocare l’uno contro l’altro. Il bambino di dieci anni deve mettere più astuzia, fantasia e impegno per superare il quindicenne. Ecco che il ragazzo più grande si trasforma anche in uno stimolo per il bambino più piccolo. Poi questi bambini hanno davvero tanta fantasia, questi si divertono, SOGNANO. I bambini del nostro Paese e del nostro continente hanno, invece, dei sogni già più definiti. Io ho tenuto questo corso con gli allenatori e chiaramente non ho potuto parlare né di tattica, né di altro. Ho cercato di valorizzare degli elementi che loro già hanno per fare in modo che continuino a giocare con delle aspettative di divertimento”.
I sogni dei bambini italiani a volte fanno presto a diventare degli incubi: spesso un mancato salto di categoria si trasforma in un crollo psicologico che è difficile da affrontare per un ragazzino.
“Il problema nel nostro contesto è l’abbandono generato da quello che lei dice. I bambini crescono, giocano per divertirsi e siamo noi dirigenti, assieme ai genitori, a caricarli di aspettative. Poi succede che nel momento in cui il bambino non è stato selezionato nella categoria superiore, smette di giocare. Il nostro compito è proprio quello di far continuare l’attività ai bambini in modo che stiano insieme, che socializzino, che raggiungano degli obiettivi nella collettività e non solo nell’individualità. Vogliamo che i bambini continuino a fare sport, anche perché nel calcio ci sono tantissimi ruoli che si possono occupare”.
Voi del Progresso Calcio siete andati quasi contro corrente rispetto al modo italiano di fare e insegnare calcio. C’è un modello di riferimento in Serie A per il vostro lavoro?
“L’Atalanta è un esempio perché è questo il tipo di passione che trasferisce ai bambini. L’Atalanta, prima di abbandonare un ragazzo, lo prova in tutte le posizioni, cosa che dovremmo fare anche noi al Progresso, perché a Castel Maggiore abbiamo più di 500 bambini, abbiamo 20 squadre nel settore giovanile, abbiamo 38 allenatori, 6 preparatori dei portieri, quindi abbiamo uno staff nutrito. Però siamo anche noi adulti che dovremmo cercare di capire che dobbiamo dare il meglio di noi stessi a questi bambini, e non è facile. E’ molto semplice piazzare un bambino davanti alla televisione e dirgli ‘Sì, rimani lì’ piuttosto che dire ‘No’, prendere la macchina, portarlo in piscina o portarlo al calcio, dove dopo devi tornare per riprendere il bambino. Noi ci stiamo impegnando come Progresso Calcio in tutto questo e speriamo di raggiungere quei risultati che per noi si traducono nel far continuare l’attività sportiva ai ragazzi e nel far emergere chi, ovviamente, ha delle qualità”.
E’ esatto dire che nel calcio l’agonismo è l’arma giusta per sconfiggere l’antagonismo sul campo?
“L’agonismo nel gioco dei ragazzi taglia fuori l’antagonismo che potrebbe esserci tra gli stessi. Nel Progresso, l’antagonismo non c’è e questa è la cosa che più balza all’occhio di chi viene a vedere ciò che facciamo a Castel Maggiore. Quest’anno, tra l’altro, l’S.C.D. Progresso ha la fortuna di militare in Serie D e dobbiamo saper sfruttare quest’occasione”.
Se dovesse descrivere l’essenza del calcio in poche parole, che motto userebbe?
“Il mio slogan personale? ‘Lasciamoci giocare, facciamoli sbagliare’, slogan adottato anche in altre realtà come Federcalcio e UISP”.
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