Calcio Giovanile, il toccante racconto di un allenatore: le difficoltà durante la pandemia
Fabio Barcellona riporta sul suo sito ultimouomo.it, il racconto di un allenatore di calcio giovanile durante il Covid
Bellissimo racconto di un allenatore di calcio giovanile riportato da Fabio Barcellona - allenatore UEFA B - sul sito ultimouomo.com, il quale parla delle difficoltà affrontate dagli allenatori e calciatori delle giovanili, alle prese con gli allenamenti nell'era Covid. Ve lo riproponiamo integralmente:
Prima giornata di campionato
Sabato 3 ottobre. Finalmente, dopo sei settimane di allenamenti, è giunto il momento della prima giornata di campionato della squadra Under 17 che alleno. Specie per i ragazzi l’attesa è davvero tanta. Ogni esordio è fonte di emozione, ma questo è chiaramente particolare. Non giocano un match ufficiale dall’inizio di marzo, quando il lockdown aveva interrotto ogni attività sportiva. La partita non è soltanto l’inizio di un nuovo anno, ma anche il ritorno a qualcosa che per loro sembrava naturale, come andare a scuola, in giro per la città, incontrare gli amici.
Dalla ripresa degli allenamenti, la mia società ha attivato i protocolli previsti dalla FIGC per lo svolgimento dell’attività, che quindi sono ormai più o meno abbastanza rodati. Tuttavia è la prima volta in cui verranno applicati quelli dedicati allo svolgimento delle gare. È stato designato un DAP –Delegato per l’Attuazione del Protocollo – che è anche il papà di un ragazzo che alleno e un mio collaboratore in campo. Oltre alle incombenze proprie, il DAP, come è naturale in una realtà piccola come la nostra, si occupa anche di altre cose. Visto che giochiamo in casa, per esempio, misura con il termoscanner la temperatura corporea di tutti i partecipanti all’evento, sia quelli della nostra squadra che quelli della squadra avversaria.
I nostri avversari provengono da una città distante circa 100 Km dalla nostra. Arrivano con un pulmino e uno o due automobili. Alla vista del loro arrivo, mentre scendono dal piccolo pullman, mi ritrovo a chiedermi con una certa angoscia quali erano le distanze interpersonali durante il loro viaggio e se è stato sicuro fare venire una squadra da così lontano costringendola a 90 minuti su un pullman. Durante le fasi di misurazione della temperatura il termoscanner segnala per parecchi ragazzi valori superiori a 37,5 °C. Li facciamo attendere fuori dalla zona spogliatoi e ci spieghiamo il dato con la lunga permanenza nel pullman.D’altronde è una giornata di scirocco, si toccano i 35°C e non siamo certi che il pullmino fosse dotato di aria condizionata. Qualcuno prova ad alleggerire la tensione che comincia ad aleggiare, sostenendo di avere taroccato il termoscanner per vincere la partita impedendo agli avversari di entrare nell’impianto. In effetti, dopo qualche minuto, per la maggior parte dei casi la temperatura rilevata scende al di sotto del limite di 37,5 °C. Ma per un ragazzo, il termoscanner continua a segnalare un valore piuttosto alto, intorno a 39°C. Al di là dei tentativi di sdrammatizzare, comincio a preoccuparmi; non tanto che potrebbe realmente avere la febbre, quanto di alcuni aspetti pratici. Non sono io il DAP e quindi non so bene cosa dovrebbe succedere. Dovremmo interdire l’accesso all’impianto al ragazzo? O isolarlo in uno stanzino apposito dell’impianto? È solo un quindicenne che vuole giocare una partita di calcio, penso. È lontano 100 Km da casa sua e si dovrebbero avvertire i genitori; lo dovrebbero venire a prendere, sempre che possano farlo. Nel frattempo lui dovrebbe restare isolato in uno stanzino spoglio di un impianto sportivo o, nella migliore delle ipotesi, da solo nel parcheggio. Si prova con un altro termoscanner, sostituendo quello in dotazione alla nostra società con uno dell’impianto polisportivo che ospita allenamenti e partite. La temperatura è molto più bassa, ma ancora superiore a 37,5 °C. Come è possibile che due termoscanner segnalino valori diversi di quasi 2 unità?
La confusione nella zona di ingresso agli spogliatoi al contempo aumenta. Vengo a sapere che in contemporanea alla nostra partita è in programma, in uno dei campi a 5 della struttura, un match di serie C2 di calcio a 5. Quattro gruppi squadra, due arbitri si incrociano nella zona spogliatoi. I corridoi sono all’aperto, ma non troppo ampi. Nella mia mente si affaccia la parola “assembramento”. Invito i miei ragazzi a rimanere negli spogliatoi giusto il tempo necessario a cambiarsi, tenendo alzate le mascherine, e a raggiungermi il prima possibile in campo, dove mi dirigo a preparare con i “cinesini” i tracciati e i campetti necessari alle fasi di riscaldamento che ho programmato.
Da quando abbiamo cominciato ad allenarci non sono mai entrato negli spogliatoi dei ragazzi. Si dice che lo spogliatoio sia il luogo sacro di una squadra. Il luogo in cui i giocatori e l’allenatore possono chiudersi la porta dietro, isolarsi da tutto il resto del mondo e guardarsi negli occhi. Io quest’anno faccio a meno delle quattro mura e ho trasferito lo spogliatoio al centro del campo, il luogo più aperto possibile, ancora più della zona panchine. La consueta chiacchierata pre-partita la sposto dallo spogliatoio alla zona di campo sotto la piccola tribuna, l’unica che regala uno spicchio d’ombra in questa giornata afosa. I ragazzi si siedono sulla terra battuta del campo, appoggiati al muro di recinzione. Io sto in piedi davanti a loro e provo a tenere la mia mascherina FFP2 indosso, ma ogni tanto, quando qualche passaggio delle mie parole richiede un’intonazione emozionale maggiore, la abbasso, per poi rimetterla su. Ci riscaldiamo e rientriamo negli spogliatoi solo per il rituale del riconoscimento dell’arbitro. Penso alla partita, anche per me è in fondo un nuovo inizio. Dopo avere allenato tante stagioni prime squadre e, in seguito, per molto tempo nell’attività di base, è il mio primo match da 7 anni in una categoria agonistica. Ma non penso solo a come abbiamo organizzato i calci piazzati o a come potrei intervenire dalla panchina in caso di difficoltà. Mi chiedo, per esempio, che fine abbia fatto il giovane calciatore a cui era stata rilevata una temperatura troppo elevata. Alla fine il display del termoscanner ha dato il via libera al ragazzo. Mi domando se tutti i miei giocatori hanno seguito la mia indicazione, ribadita anche in mattinata nella chat di gruppo, di portare con sé una borraccia identificabile, da cui bere nel corso della partita, cosa fondamentale a 35°C. Non è più il tempo della cesta delle borracce in comune.
Il protocollo prevede che il riconoscimento da parte dell’arbitro avvenga fuori dalla porta dello spogliatoio, in una zona che nel migliore dei casi è all’aperto e che, in ogni caso, si presume più aerata dello spogliatoio stesso. Nei corridoi troviamo però un altro arbitro e un’altra squadra: è in corso il riconoscimento di una delle due squadre della partita di calcio a 5. Nel frattempo rientra dal riscaldamento anche la squadra avversaria. Mi ritrovo a fare il vigile e a provare a ridurre il traffico creatosi nella zona spogliatoi, troppo piccola per quattro squadre in tempo di pandemia.
La partita comincia. Si entra a turno, prima l’arbitro, poi la squadra in trasferta e infine noi. Niente strette di mano e niente saluti. Il mio consueto in bocca al lupo all’allenatore e alla panchina avversaria avviene a distanza. Per abitudine seguo la partita in piedi, abbastanza lontano dalla panchina. Fin troppo, tanto che chi mi conosce mi prende in giro per il mio radicato vizio di ignorare, quando disegnata, le linee dell’area tecnica. Quest’abitudine mi torna però comoda in questo momento perché posso urlare ai ragazzi in campo abbassando la mascherina senza avere nessuno attorno. Abbiamo perso il sorteggio iniziale, e ci ritroviamo a giocare con un fortissimo vento di scirocco in faccia. Il vento ci rende complicato uscire dalla nostra metà campo e terminiamo il primo tempo sotto di un gol. Non tutti hanno portato la borraccia, anzi, davvero pochi. Vanno allora a un rubinetto posto appena fuori l’ingresso nel campo da gioco e, insieme a quello che posso fare per aggiustare la partita, mi sorprendo a pensare ad aerosol dispersi mentre i ragazzi aprono la bocca per bere. Nell’intervallo non rientriamo negli spogliatoi, ma ci fermiamo di nuovo sotto la tribuna vuota perché la partita si gioca a porte chiuse.
I genitori che vogliono vedere la partita posteggiano l’auto nella grossa strada che costeggia il campo e, in punta di piedi, provano a vedere porzioni di campo al di là della coprente rete protettiva. Sono tutti alle mie spalle. Alcuni ragazzi che non sono stati convocati, i dirigenti e altri allenatori della mia società seguono la partita su una scala che conduce dai campi di calcio a 5 al campo a 11. Potrebbero stare molto più larghi e comodi nella tribuna, ma non si può aprire. Penso che siano troppo stretti. Nonostante lo scirocco sia calato e non si sia tramutato in un vantaggio per noi, nel secondo tempo chiudiamo gli avversari nella loro metà campo, colpiamo un palo e una traversa, ma non riusciamo a segnare e perdiamo per 1-0. Alla fine della partita, ancora una volta, mi fermo in campo a parlare coi ragazzi, complimentandomi per la buona prestazione a dispetto della sconfitta. Al rientro nella zona spogliatoi mi accorgo che le squadre da 4 sono diventate 6 e gli arbitri sono 3. Sta per iniziare un’altra partita di calcio a 5, mentre quella precedente è appena finita. La confusione aumenta. Vado a casa con in mente tutte le azioni della partita, tutto quello su cui ho intenzione di lavorare nel corso della settimana di allenamenti che verrà. Il senso di preoccupazione non mi abbandona per il viaggio di ritorno di quei ragazzi su quel piccolo pullman. Mi chiedo perché la FIGC non abbia pensato a fare gironi più piccoli, per ridurre gli spostamenti, invece di intasare il calendario con partite infrasettimanali e nel periodo natalizio, anche in previsione di match rinviati e possibili sospensioni delle attività.
Le altre partite
Per la seconda giornata tocca a noi fare 100 Km e subiamo una brutta e rotonda sconfitta. Tuttavia, la reazione della squadra nel secondo tempo, dopo un primo tempo disastroso, mi lascia ben sperare per il prosieguo della stagione. Qualcuno propone di fermarsi a un bar a mangiare qualcosa, in zona c’è un paese famoso per la bontà dei sui cannoli. Mi sarò fermato mille volte in quel bar dopo una partita, insieme ai miei compagni di squadra o con i ragazzi che allenavo. Cannoli fantastici e dolci ricordi. Il bar è piccolo e noi siamo tanti. Non mi fermo. In macchina sono da solo e torno a casa.
Durante la settimana, lavoro a un accorgimento tattico e sugli aspetti caratteriali che nel secondo tempo della partita del sabato precedente ci hanno consentito di non affondare definitivamente. Il nostro 3-4-3 ha sofferto in mezzo al campo e la coperta è sembrata troppo corta. Le due punte esterne dovrebbero aiutare di più in fase difensiva, ma non ce la fanno e d’altronde, se lo facessero, perderebbero un po’ di brillantezza davanti. Lavoro quindi su un 3-5-2 in fase di non possesso in cui fluidamente una delle due mezzali si alza sulla linea degli attaccanti in fase di possesso per ricostituire un attacco a 3 punte che mi pare fondamentale per attaccare in modo efficace. Il sabato affrontiamo una squadra della nostra città che ha vinto le prime due partite. Un test impegnativo. Il nuovo sistema di gioco funziona bene, il centrocampo è più solido e, al contempo, non perdiamo in pericolosità offensiva. Non troviamo il gol nonostante le tante occasioni create e la partita finisce 0-0, ma davvero meritavamo di più. In ogni caso siamo tutti soddisfatti per il primo punto della stagione e per la prestazione incoraggiante. Il protocollo Covid da seguire per le gare di campionato è sembrato più rodato e mi ha dato meno da pensare. Come tutti, però, ho l’impressione che possa essere l’ultima partita per un po’ di tempo. È ormai certo che nel fine settimana verrà pubblicato un nuovo D.P.C.M. e tra le ipotesi in campo c’è l’interruzione dell’attività dilettantistica e giovanile degli sport di contatto. I ragazzi mi chiedono se lunedì ci rivedremo di nuovo per gli allenamenti e io non so che rispondere, se non che ci aggiorneremo in chat.
E aggiungo che spero che tutto possa continuare, anche se quando lo dico non sono del tutto sincero. C’è una parte di me, quella che pensa ai ragazzi sul pullman, agli spogliatoi troppo angusti, al tunnel che porta in campo troppo basso e stretto che volevano farci attraversare nella seconda partita e che ho ottenuto di bypassare, che forse pensa sia meglio fermarsi qui. Nel frattempo delle sette partite in programma nel nostro girone di campionato, ben quattro non si sono giocate per casi di coronavirus nelle squadre. Di fatto siamo quasi fermi.
Mi metto sulla moto per tornare a casa e guardo il telefono, che non prendevo in mano da circa tre ore. Trovo un’infinità di messaggi WhatsApp non letti nella chat dei genitori della classe di mio figlio. Uno dei professori è positivo al test per SARS-CoV-2. I ragazzi non vengono considerati “contatti stretti” perché in linea del tutto teorica i professori stanno sempre a una distanza maggiore di 2 metri dagli alunni, tuttavia l’intera classe passa alla didattica a distanza per una settimana. Mio figlio non ha in effetti nessun obbligo di quarantena, ma per prudenza non lo mandiamo agli allenamenti della scuola calcio che frequenta, nella stessa società della squadra che alleno. E io? Mi rendo conto che è una catena senza fine, ma davvero non mi sento di andare in mezzo ai miei ragazzi, pur all’aperto e con la mascherina, ad allenarli. Il rischio zero non esiste, ma se è anche un po’ più alto del solito, non voglio farlo correre ai miei ragazzi che potrebbero essere contagiati nel caso di una mia ipotetica positività. Riesco, dopo un tampone fatto a mio figlio, fortunatamente negativo, e un congruo periodo dall’ultimo contatto con il suo professore, a condurre personalmente solamente l’ultimo allenamento della settimana prima della gara, lasciando ai miei collaboratori quelli precedenti.
Nel frattempo è sorto un altro problema: il D.P.C.M. pubblicato la domenica ha messo un freno alle attività calcistiche, ma non è ben chiaro cosa è stato fermato e cosa possa continuare.
Nelle chat dedicate si rincorrono le più svariate interpretazioni. Abbastanza presto si consolida la convinzione che i campionati di competenza dei comitati regionali, come il nostro, possono proseguire. Ma che i campionati organizzati dai comitati provinciali si debbano fermare. I ragazzi sono contenti a metà. Il campionato regionale continua. Tuttavia il nostro è un gruppo ampio e per dare l’occasione a tutti di giocare partite ufficiali la nostra società ha iscritto una seconda squadra al torneo organizzato dal comitato provinciale. Non abbiamo fatto due gruppi distinti per i due tornei, ma è chiaro che chi non è stato impiegato, o lo è stato meno, nelle prime tre giornate di campionato, giocherà le partite della competizione provinciale che avrebbe dovuto cominciare proprio la domenica successiva. È chiaro che ci sia parecchio malcontento nel gruppo. Ovviamente anche io sono molto dispiaciuto dal fatto che gli spazi per far giocare tutti si sono improvvisamente ristretti e che dovrò deludere ancora di più la legittima voglia di giocare di qualcuno. Devo gestire anche questa cosa.
Oltre alla mia assenza per buona parte della settimana, c’è anche uno dei giocatori che non si allena perché compagno di classe di due ragazzi positivi al test per SARS-CoV-2 e, il giorno prima della gara, uno dei convocati mi avverte con non potrà partecipare alla trasferta per un motivo simile. La domenica mattina facciamo altri 100 Km per la nostra quarta partita di campionato.
Quando arrivo allo stadio che ospiterà il nostro incontro, mi trovo davanti una tribuna piena di gente che assiste al match che precede il nostro. Ma le partite non erano a porte chiuse? Ho le idee confuse e alla vista di tante persone vicine e affollate che guardano un evento sportivo mi sembra di essere trasportato in una realtà spazio-temporale parallela, in cui il coronavirus non è mai esistito. Non sono più abituato a una scena che era la normalità solo 7 mesi fa. Come sempre invito i ragazzi a rimanere negli spogliatoi il meno possibile e organizzo tutto il pre-gara nello spazio alle spalle di una delle due porte, mentre in campo è in corso una gara del campionato U-15. Inevitabilmente i ragazzi sono distratti dalla partita e quindi non ascoltano con la solita concentrazione le mie parole e non si dedicano con la dovuta attenzione al riscaldamento. Io non riesco a non notare come durante l’intervallo del match che si sta svolgendo, le squadre e i loro allenatori siano rimasti per 15 minuti dentro lo spogliatoio. Il nostro primo tempo è un vero disastro. Il 4-3-3 sperimentato per la prima volta in stagione e provato nell’unico allenamento da me guidato non mette a loro agio i ragazzi. Ho sbagliato. Dopo un quarto d’ora ritorno frettolosamente al consueto 3-5-2/3-4-3 e le cose vanno un po’ meglio, ma nonostante tutto chiudiamo il tempo sotto per 2-0. Abbiamo giocato male e i ragazzi mi sembrano frenati dalla paura di sbagliare. Nell’intervallo, sempre in campo, mentre la squadra avversaria va negli spogliatoi, mi concentro su quest’aspetto e dico loro di pensare solo a divertirsi e a giocare senza alcuna paura. Siamo tutti lì per quello, per divertirci e mi arrabbio anche un po’ dicendo loro che viviamo un periodo orribile e che se dobbiamo giocare, dobbiamo davvero sfruttare l’occasione per godercela. Nessun timore, leggerezza e divertimento. E al diavolo il risultato. Iniziamo bene e subito accorciamo le distanze. A questo punto perdiamo solo 2-1 ed è un mezzo miracolo per come è andata sino a quel momento la partita. Purtroppo abbastanza presto subiamo il gol del 3-1. Si avvicina il mio collaboratore e mi dice che è stato pubblicato il nuovo D.P.C.M. che fermerà il campionato e mi suggerisce di utilizzare prima possibile le 7 le sostituzioni a disposizione per far giocare tutti i ragazzi in vista dello stop del torneo. È un buon consiglio e provo a seguirlo anche se in me combattono le esigenze tecnico tattiche della partita e la volontà di far giocare tutti i giocatori a disposizione.
Perdiamo, e al termine della partita l’insistente domanda che mi pongono i ragazzi è se continueranno a giocare. Non lo so. Appena entro in macchina prendo il cellulare e apro il file PDF con il testo del nuovo decreto. Stavolta è chiaro che il campionato verrà sospeso.
La fine dei campionati
Nel gruppo WhatsApp che ho con rappresentati federali, tecnici e dirigenti di altre squadre si apre un dibattito sulla possibilità di effettuare allenamenti individuali. A due giorni dalla pubblicazione del decreto la domanda non ha ancora una risposta chiara. L’impressione che ho è che tutti siano infuriati per la sospensione dei campionati e per la chiusura o, in ogni caso, per la forte limitazione dell’attività nel caso fossero ancora permessi gli allenamenti individuali. Ci sono in effetti interessi economici in ballo, e stipendi. Oltre, ovviamente, alla sincera convinzione dell’importanza della pratica sportiva per i giovani.
Io ho sentimenti ambivalenti. Non so se davvero giocare a calcio e, soprattutto, tutte le condizioni al contorno – spogliatoi, trasferte, impianti – siano davvero sicure. Pur non entrando nel merito della capacità dei protocolli messi a punto di arginare davvero il contagio, mi chiedo se davvero io, per quello che mi compete, sono in grado di farli rispettare. Il sistema giovanile e dilettantistico, poi, sono in grado di farlo?
Pur con tutte le enormi differenze del caso mi chiedo se abbia un senso, oltre a quello economico, che i calciatori di serie A siano costantemente sottoposti a tampone e i dilettanti e i ragazzi no. Nelle squadre professionistiche sono stati trovati tanti positivi e si sono creati dei veri e propri focolai come nel caso del Genoa o della Reggiana. So che non esiste un’attività sicura al 100%, e so anche dell’importanza dello sport per i ragazzi. Se alleno i giovani è perché credo fermamente nel potere educativo dello sport e del suo ruolo cruciale per la salute fisica. Per me, negli anni della mia crescita, ma non solo in quelli, lo sport è stato fondamentale per infinite ragioni e buona parte di quello che sono lo devo al calcio ed è questo è il motivo principale che mi spinge ad allenare i miei ragazzi. Da padre preferisco vedere mio figlio sul campo da calcio piuttosto che a casa. Eppure, nonostante tutte le ottime ragioni, rimane, nemmeno troppo in fondo, la sensazione di mettere i ragazzi, e a catena le loro famiglie, in una certa misura in pericolo. Mi sento inadeguato alla situazione. Forse la pandemia mi ha reso paranoico, o forse solo troppo prudente o solamente realista. Non lo so, non ho alcuna certezza. Mi chiedo se tutte le persone con cui parlo, che sono davvero arrabbiate per lo stop al calcio giovanile, non abbiano, in fondo, i miei stessi dubbi e la mia sensazione di inadeguatezza. Spero solo che tutto questo finisca presto.