Quando il calcio piega la malattia. La rinascita del portiere salentino Capirola passa da...Bologna
"Nulla è impossibile, tutto si supera". Domenico Capirola racconta la vittoria sulla malattia attraverso il calcio ai microfoni del Pallone GonfiatoIl più delle volte, quando si pensa al calcio e, più in generale, all’intero mondo dello sport, si prende in considerazione solo una scala di colori rosei della vita, quali l’agonismo, la determinazione, il divertimento, il gioco, le manifestazioni, l’allenamento, le capacità motorie e psico-fisiche, il successo individuale, la vittoria. Lo spettro cromatico sopracitato, tuttavia, spesso e volentieri distoglie l’attenzione dei lettori e degli appassionati del football da ciò di cui necessita un agonista per praticare la propria disciplina: la salute. Chiedere a Domenico Capirola per credere, giovane portiere dell’ASD Zollino, squadra militante nel Girone C di Prima Categoria e fresca vincitrice del campionato di Seconda Categoria. Originario di Calimera di Lecce e attualmente protagonista nella realtà calcistica pugliese, il calciatore salentino vanta di una storia per nulla scontata, né banale. Durante il periodo adolescenziale, infatti, la vita di Capirola è stata stravolta da una diagnosi medica di certo impietosa per un atleta: si tratta dell’enterite regionale, meglio conosciuta come Morbo di Crohn, malattia cronica che ha costretto il portiere allora sedicenne ad abbandonare a poco a poco gli allenamenti e i campi di gioco per quattro lunghissimi anni trascorsi tra il paese natale e la città di Bologna, dove il ragazzo ha ricevuto le cure idonee presso il Policlinico Sant’Orsola. Il sostegno dell’azienda ospedaliera emiliana e l'amore per lo sport praticato sin da bambino hanno permesso al calimerese di vincere il match più difficile della sua vita. Il fugace e silenzioso sogno di un ritorno all'attività sportiva a protezione dei pali di un team calcistico è sfociato in un'assordante e inconfutabile realtà, con i guantoni imbevuti, da due stagioni a questa parte, di una nuova, inespugnabile consapevolezza: “nulla è impossibile, tutto si supera”. Da Lecce a Bologna, dalle difficoltà fisiche al ritorno da protagonista sui terreni di gioco, dalla malattia alla vittoria del campionato di Seconda Categoria, Domenico Capirola racconta la propria rinascita ai microfoni del Pallone Gonfiato.
Chi è Domenico Capirola? Chi era prima della malattia e chi è oggi dopo aver parato il rigore più difficile della propria vita?
“Sono un semplice ragazzo che è cresciuto con la passione del calcio. Ho iniziato a parare quando avevo 5 anni e come tutti i bambini fantasticavo e sognavo. Purtroppo poi a 16 anni mi hanno diagnosticato una malattia cronica intestinale e per forza di cose sono stato costretto ad accantonare i miei sogni. Una diagnosi del genere fa crollare il mondo sotto i piedi ad un giovane che é nel pieno dei suoi anni adolescenziali e che vede in un attimo cambiare la propria vita. Un anno e mezzo fa mi sono ritrovato ad affrontare la battaglia più dura in un “campo” a me sconosciuto: la sala operatoria. Ma ne sono uscito vincente. Adesso procede tutto per il verso giusto, anche se devo fare dei controlli periodici e prestare sempre molta attenzione. Al momento, però, va benissimo così: ho capito che bisogna avere molta pazienza e pensare sempre positivo”.
Come si fa a ritrovare se stessi dopo un periodo così lungo e complicato? Si può dire che la persona debba necessariamente confrontarsi con un io diverso e talvolta sconosciuto?
“Non posso dire con certezza che dopo un periodo difficile si ritrova se stessi, ma assolutamente ci si confronta con dei lati della propria personalità che magari prima erano più nascosti e che invece a un certo punto della tua vita si è costretti a conoscere e a far venir fuori, spesso superando anche molti limiti che prima si ignorava di avere”.
La lontananza dallo sport è una mancanza quasi deleteria nella vita di un agonista. Come hai vissuto quei quattro anni di distacco dal calcio?
“Anche se giocavo in un semplice campionato di Eccellenza pugliese, non potermi allenare e stare lontano dal campo é stata una mancanza importante. Accettare una decisione che non dipendeva dalla mia volontà ha generato in me una sofferenza e un dispiacere forti. Credo che a 16 anni, l’età in cui per la prima volta sentii parlare di una malattia cronica, sia molto difficile accettare una diagnosi del genere e comprendere a cosa si va incontro. Non nego e non mi vergogno di aver attraversato momenti di sbandamento, durante i quali mi sentivo solo ed incompreso, non riuscendo ad accettare nemmeno i consigli di chi mi voleva e mi vuole bene. Mi chiedevo ‘Perchè proprio alla mia persona? Perché non posso fare tutto ciò che fanno i ragazzi della mia età?’. Soltanto crescendo ho imparato che dipendeva tutto da me e dalla mia forza di volontà. Ero e sono tuttora consapevole che le sorprese o gli ostacoli possono comparire all’improvviso, ma con il sorriso sulle labbra e pensando positivo ho deciso di vivere tutto ciò che mi aspetta”.
Cosa hai imparato dalla tua esperienza? L’età può aiutare a superare le difficoltà e a tornare più forte di prima con una nuova linfa di riscatto?
”Crescendo inizi a ragionare con più maturità. Ho pian piano capito che non serviva a nulla piangermi addosso e già durante la mia convalescenza ho ricominciato ad allenarmi per rimettermi in gioco, prendendola soprattutto come una sfida personale, quasi come una cura dopo un periodo non proprio facile”.
Quanto è stato difficile riapprocciarti atleticamente a un mondo che non ha mai cessato di essere tuo almeno nella tua testa e nel tuo desiderio quotidiano?
“In un primo momento , più che delle difficoltà ho riscontrato una certa paura. Sicuramente il campo da calcio ed il pallone erano il mio mondo, ma mi sono ritrovato ad affrontare tutto con un nuovo corpo, nuove abitudini e tantissime insicurezze”.
Hai percepito, nel mondo dello sport, un modo differente di guardare alla tua persona e alla tua attività agonistica dopo la malattia da te sconfitta?
“Assolutamente no. Ho ricevuto sostegno e supporto continuamente sia dai miei ex compagni di squadra, sia dagli amici appartenenti al mondo del calcio. Con grande orgoglio posso dichiarare di aver trovato nell’amico e Mister Luigi Russetti e nell’intera società dello Zollino una seconda famiglia, che ha da subito creduto in me. Tutti i compagni di squadra mi hanno sempre supportato ed aiutato a rimettermi in gioco, credendo nelle mie capacità e non facendomi mai sentire diverso, né solo”.
La vittoria di un match o di un campionato da parte di uno sportivo ha elementi in comune con la vittoria dell’individuo sulla malattia?
“Non credo che quello che hai fatto sia un paragone azzardato, anzi. In entrambi i casi, solo un percorso fatto di impegno, costanza e forza di volontà può portare alla vittoria. Personalmente, lo scorso anno ho vissuto tutte e due le esperienze. Mentre festeggiavo un anno esatto dalla mia rinascita, insieme con la mia squadra ho provato la felicità di vincere il campionato. Doppia soddisfazione e tanto orgoglio, dopo un anno di fatiche, sacrifici e tante salite da scalare”.Lo sport può aiutare a continuare a credere in se stessi anche quando quasi non ci si riconosce?
“Credo fermamente che lo sport sia di fondamentale aiuto quando si attraversa un periodo negativo o semplicemente quando la propria vita ti presenta degli ostacoli da superare. Prima di tutto è un modo per svagarsi e liberare la mente dai pensieri negativi. E poi aiuta a ritrovare se stessi, perchè ogni piccolo obiettivo che si riesce a raggiungere diventa motivo di sprono e di speranza per ricominciare a credere nelle proprie capacità. Un ragazzo dovrebbe essere aiutato a crescere in tutti i sensi, specie davanti alle difficoltà della vita. Lo sport deve anche essere fungere da aiuto psicologico per quelle persone che convivono con una malattia, specie se quest’ultima è cronica. Nel calcio il senso della condivisione, quello del fare gruppo, quello della creazione di una seconda famiglia convivono all’interno di uno spogliatoio. Sono convinto che questi elementi siano un’ottima terapia per ristabilire buonumore, ottimismo e speranza”.
E’ giusto affermare che lo sport deve investire maggiormente in figure rilevanti per stimolare un agonista a non abbandonare se stesso e l’attività durante dei periodi difficili della sua vita?
“Sì, penso che dai piani alti dello sport debbano arrivare maggiori investimenti in professionisti di rilievo nel campo della psicologia. Lo psicologo può aiutarti durante un periodo di difficoltà introspettiva oltre che fisica come quello da me trascorso. In generale, sono diversi i campi in cui lo sport può migliorare. Investire anche nelle strutture, ad esempio, sarebbe un vantaggio per tutti”.
Cosa ha rappresentato la città di Bologna durante il periodo più difficile della tua vita e cosa provi oggi pensando al capoluogo emiliano che ti ha ridato un futuro da protagonista?
“Bologna è senza dubbio la città che mi ha regalato i miei angeli custodi. Due amici prima ancora che infermieri mi hanno catapultato al Sant’Orsola ed io non finirò mai di ringraziarli. A parte le ripetute visite e i costanti controlli, trascorrere ventiquattro giorni lontano da casa per affrontare un’operazione come quella che ho dovuto subire non è di certo un qualcosa di facile, ma Bologna é stata un’ottima cornice a tutto ciò. Ormai mi sento a casa ogni volta che vado nel capoluogo emiliano e devo confessare che le regalo i miei stati d’animo più segreti e più intimi”.
Hai parato il rigore più importante della tua vita. Cosa ti prometti per il futuro?
“Sono convinto che la vita mi abbia messo alla prova seriamente. Un anno e mezzo fa, prima di entrare in quella sala operatoria, ero assalito dai dubbi e dalle paure. Oggi ripensando a quello che sono riuscito ad affrontare mi sento più maturo e più consapevole di ciò che mi accompagnerà a vita. Ormai credo che nulla è impossibile e che tutto si supera. Non so cosa mi riserva il futuro, vivo la vita giorno per giorno, ma quello che mi auguro è di non perdere mai il sorriso e la determinazione per affrontare gioie e dolori e continuare a coltivare le mie passioni”.
Tornando a Bologna, trovi in Sinisa Mihajlovic una figura di forza in quella che per te è stata ed è tuttora una battaglia personale?
“La mia storia ovviamente non è paragonabile a quella di Sinisa, ma la mia esperienza mi ha fatto solo immaginare cosa significhi ricevere una diagnosi come la sua. Fin da subito è stato un esempio di grande forza e determinazione nel voler combattere una battaglia così dura”.
Quale è stato il momento della svolta psicologica durante il periodo di difficoltà fisica? E quale quello del riscatto dal punto di vista agonistico?
“Durante la convalescenza successiva all’operazione subita, credo ci sia stata la svolta psicologica più significativa per me: volevo ripartire, sentivo l’esigenza di ritornare più forte di prima. Dopo un mese esatto dalla mia dimissione, ho iniziato a correre, ponendomi giorno dopo giorno un obiettivo sempre maggiore. Finché grazie ad un semplice torneo di calcetto ho capito che quello era il momento giusto per rimettermi in gioco e ritornare tra i pali. Così, dopo pochi mesi, son riuscito a raggiungere anche il mio riscatto agonistico: parare in una partita di campionato. Quel giorno ho capito che ce l’avevo fatta”.
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