Amedeo Biavati, talento sopraffino e inventore del doppio passo, è stato una colonna del Grande Bologna degli anni '30 e dell'Italia di Vittorio Pozzo

-di Stefano Ravaglia-

Un ragazzino che bussa a una porta, un padre che scende e va al bar all’angolo per rispondere al telefono. E rientra in casa con una notizia splendida: il proprio figlio giocherà in un vero stadio, con la maglia della sua città. É grossomodo questo che accade nel maggio 1933, quando il presidente del Bologna, Gianni Bonaveri, chiede di parlare con Angelo Biavati, padre di Amedeo, una delle stelle polari della storia del Bologna. Tra infortuni e assenze, il club è in emergenza per la partita del 21 maggio contro il Casale al vecchio Littorio, e quel ragazzino di diciassette anni deve arruolarsi. Senza telefono in casa, quel bambino che viene a bussare a casa Biavati è incaricato dal bar di via Dante, attiguo alla loro abitazione, luogo deputato per rispondere alle telefonate. Amedeo, che era nato pochi anni dopo il Bologna, il 4 aprile 1915 e andava allo “Sterlino”, il campo a Villa Principe Hercolani in zona Santo Stefano dove abitavano, a vedere gli allenamenti del Bologna che nel 1925 con Felsner in panchina aveva vinto il primo scudetto, ha 17 anni. La passione per il pallone di papà Angelo lo aveva travolto a tal punto da chiedergli in dono un pallone, cosa non possibile a causa delle esigue casse della famiglia Biavati. Ma gli allenamenti sì: sulle gradinate dello Sterlino, Amedeo studia da calciatore. Sin quando, nel 1932, Angelo inforca la bicicletta caricando il figlio, entrambi diretti verso lo stesso campo ma questa volta per un motivo speciale. Il Bologna cerca giovani da inserire nelle proprie fila, e a quel provino Amedeo ci arriva senza scarpini: qualche lira allungata dal padre al magazziniere, fa comparire i ferri del mestiere. Seppur di una taglia più piccola, non impediranno al giovane Biavati di superare a pieni voti la prova. Quel 21 maggio del ’33 con il Casale, il Bologna non deve sudare. Finisce 7-0, e l’esordio è da incorniciare: doppietta in due minuti. Amedeo Biavati aveva già il destino colorato di rossoblu. Dopo un anno in prestito al Catania, dietro preoccupazione dei genitori che lo vedranno andare così lontano, così giovane. Eppure Amedeo si adatta subito, segna una decina di reti e poi torna al Nord, nella sua Bologna. L’arrivo di Arpad Weisz sulla panchina rossoblu nel 1936 è la svolta della sua carriera. Con il numero 7, Biavati viene schierato all’ala e si fa conoscere per il suo famoso “doppio passo”, un gioco di gambe dove il pallone appare e scompare prima che l’avversario venga saltato senza appello. Arriva agli occhi del grande pubblico perché in quegli anni, con la televisione ancora di là da venire e i quotidiani come unica fonte di informazione, al cinema viene proiettata una rubrica di attualità e informazione, dal titolo “Settimana Incom”. É qui che il registra scompone il gesto di Biavati e lo mostra al grande pubblico. Da quel momento, Biavati sarà sempre conosciuto come l’inventore del doppio passo.Col Bologna vince gli scudetti del 1937 e del 1939, oltre alla famosa Coppa dell’Esposizione Universale a Parigi contro il Chelsea, battuto 4-1. È l’epoca del Bologna che “tremare il mondo fa”. Arpad Weisz, che aveva vinto il primo campionato della storia del girone unico con l’Inter nel 1930, è un rivoluzionario per l’epoca. Ebreo ungherese, è il primo allenatore che si mette in tuta e scende in campo coi suoi sottoposti. Predica movimento e grande forza fisica, cambiando molte cose nei metodi di allenamento. Sin quando, nell’ottobre 1938, le leggi razziali lo costringono ad abbandonare Bologna, riparando prima a Parigi e poi in Olanda, dove cadrà nelle grinfie dei tedeschi e morirà ad Auschwitz nel 1944. La sua storia è stata riscoperta e nobilitata dal giornalista bolognese Matteo Marani che ne ha fatto un libro imperdibile, “Dallo scudetto ad Auschwitz”. Nel 1938 aveva partecipato con successo anche alla spedizione azzurra in Francia, dove l’Italia di Pozzo vincerà il suo secondo Mondiale consecutivo, e nel 1943 sposa Valentina, dalla quale avrà un figlio, Franco. Chiude la sua avventura al Bologna nel 1947 non senza turbolenze: per liberarsi dal club sarà lui a dover riscattarsi il cartellino. Inizia un lungo peregrinare da allenatore, in club del centrosud, ma senza successo. Dopo un’esperienza di allenatore-giocatore a Belluno, scrive una lettera alla FIGC, il 30 giugno 1955, per denunciare come il calcio italiano si sia dimenticato degli eroi del ’38, e per segnalare quanto di quegli ex calciatori oggi siano disoccupati, pur non volendo espressamente chiedere un’elemosina. Per riparare all’imbarazzo, Dall’Ara lo richiama nei quadri del club negli anni Sessanta. Andrà alle giovanili, e sotto la sua ala avranno molto da imparare Pascutti, Tumburus e Bulgarelli, tre protagonisti dello scudetto del 1964. Amedeo Biavati muore il 22 aprile 1979 a soli 64 anni e viene sepolto alla Certosa. La figlia Daniela, sino a pochi anni fa, ha gestito nel cuore di Porta Saragozza un locale che portava il suo nome: all’ingresso, sulla destra, si notava subito la gigantografia del padre in maglia rossoblu. Una persona buona, generosa e positiva, innamorata del pallone e del Bologna. E che ancora oggi, e guai non fosse così, è ancora nella hall of fame di coloro che hanno a cuore le sorti del club.    
Serie A, 38^ giornata: la presentazione dei match di campionato
Rafael duro su Neymar: "Non è un leader. Oggi il calcio non è la sua priorità"

💬 Commenti